Neuromarketing, cos’è e come ha cambiato il Marketing. Lo spiegano Martin Lindstrom e David Goleman

Il Neuromarketing è un potente strumento a disposizione dei marketer che permette di “entrare nella mente dei consumatori” per scoprire le emozioni che guidano le scelte d’acquisto. Il Neuromarketing può anche essere definito come un luogo dove le neuroscienze, che studiano i meccanismi di funzionamento del nostro cervello, incontrano il Marketing. È da diversi anni utilizzato dai brand per cercare di aumentare l’effetto della pubblicità, creare prodotti di successo e costruire i brand del futuro.

«Oltre il 30% dei 100 marchi di Fortune sta utilizzando il Neuromarketing per la ricerca strategica – conferma Martin Lindstrom, tra i massimi esperti mondiali di Neuromarketing, consulente di noti brand e autore di bestseller come Brandwashed o Small Data. Il Neuromarketing ha dimostrato che oggi non bisogna più vendere prodotti, ma piuttosto di sedurre i clienti».

Il marketing è l’arte della persuasione ed è quindi sempre stato strettamente legato alla psicologia.

L’obiettivo è infatti trovare nuovi metodi per far sì che le persone facciano o comprino cose. Ma capire i meccanismi della mente umana è stato sempre un mistero difficile da comprendere. Per questo, negli ultimi dieci anni gli esperti di marketing si sono sempre più appassionati al cervello umano. È in questo contesto che il Neuromarketing viene in aiuto.

Il motivo è che siamo bombardati di informazioni e anche quando pensiamo che stiamo prendendo una decisione razionale, in realtà la scelta è sempre anche emotiva.

«La ragione – spiega Daniel Goleman, il noto studioso e autore di bestseller sull’Intelligenza emotiva – è che il nostro cervello è progettato, quando ci troviamo di fronte ad una decisione, per valutare e soppesare emotivamente ciascuna opzione. Nessuna decisione nella vita prescinde dall’emozione, a meno che non siamo nell’ambito della matematica, che è un universo puramente teorico. È un’emozione tacita, impercettibile, ma molto rilevante».

Come funziona il Neuromarketing?

Secondo la neuroscienziata Susan Greenfield, «La scienza cognitiva è ora molto utilizzata per studiare i consumatori, attraverso tecniche di scansione del cervello. Ci sono molte ragioni. Innanzitutto non è doloroso per le persone, che possono essere pienamente coscienti. E le immagini che si ottengono, con alcune parti del cervello che si illuminano, sono belle da vedere e, almeno apparentemente, molto chiare e facili da interpretare».

Nei reparti creativi delle imprese si studia dunque la capacità di evocare una risposta emotiva da uno spot o da una promozione. Nel corso degli ultimi decenni, gli studi di marketing hanno cercato metodi per comprendere e misurare tali risposte emozionali per determinare l’efficacia dei messaggi degli inserzionisti. Il Neuromarketing offre dunque strumenti per prevedere le performance del prodotto sul mercato. In un certo senso, è l’evoluzione dei focus group, salvo il fatto che è più difficile per il cervello cercare di mentire o essere messo sotto pressione dai colleghi e dire ai marketer una mezza verità.

«Non è possibile chiedere alla gente la loro impressione su un odore o una sensazione tattile o un sapore – spiega – Lindstrom – È difficile verbalizzare una sensazione, perché ancora non abbiamo il vocabolario giusto per farlo. Nel 2008, ho condotto il più grande esperimento di neuromarketing nel mondo usando la risonanza magnetica funzionale per la scansione del cervello dei consumatori per capire cosa succede veramente nella nostra parte inconscia del cervello. L’idea di base di questo esperimento è che se siamo in grado di dare un senso alla parte inconscia del nostro cervello – che gestisce l’85% di tutto quello che facciamo tutti i giorni – allora saremo più vicini a scoprire che cosa sentiamo veramente quando viviamo e acquistiamo cose tutti i giorni. E sulla base di questo, potremmo forse creare campagne pubblicitarie che abbiano un po’ più di successo di quanto non ne abbiano oggi».

Studiare le risposte del cervello agli stimoli, il modo in cui funziona l’emozione, può aiutare a comprendere ciò che rende le idee contagiose e quindi essere in grado di creare formule standard che funzionano.

Come funziona? Utilizzando macchine per la risonanza magnetica per monitorare l’attività cerebrale, il Neuromarketing studia la reazione del cervello ad alcuni stimoli, come aspetto, odore, storie, e anche associando una celebrità a un marchio specifico.

Osservare l’attività prima, durante, e dopo gli stimoli può portare a capire come funziona il cervello e a che tipo di idee le persone stanno reagendo meglio.

Come la scienza del cervello cambierà il futuro del marketing?

«La pubblicità non funziona più – afferma senza mezzi termini Lindstrom – . I marketer spendono una quantità enorme di soldi e la gente non ricorda veramente nulla. Ovviamente, qualcosa succede. Forse memorizziamo le conoscenze a livello inconscio, che è quello che stiamo cercando di capire, o forse vanno solo in un buco nero: io fondamentalmente non credo che ci dimentichiamo tutto, ma che archiviamo le informazioni da qualche parte. Il neuromarketing aiuta a capire dove vanno questi messaggi e come influiscono su di noi, ed è probabilmente la migliore e l’unica scelta che abbiamo in questo momento nella comprensione del consumatore e del futuro della pubblicità».

Pubblicità che funziona davvero: il marker somatico

Qual è dunque l’approccio vincente per il futuro? In che modo la pubblicità può funzionare? La risposta è nel marker somatico. L’esperto lo spiega così.

«Bisogna pensare in modo non convenzionale, e qui le agenzie di pubblicità hanno un ruolo forte. Hanno il talento creativo per rompere la scatola nera e pensare fuori dagli schemi, in nuove direzioni. Ogni marchio, ogni prodotto può creare dei marker somatici: è quella piccola idea che in realtà è così grande da trasformare un brand. E non deve costare una fortuna».

Secondo Lindstrom, perché un messaggio pubblicitario arrivi a destinazione con il marker somatico servono tre cose. «Una è quella di generare un maggiore impegno emotivo con amici e familiari come ambasciatori per certe marche e prodotti. In secondo luogo, creare coinvolgimento emotivo nel modo in cui posizioniamo i marchi in modo tale che le persone sentano che rappresentano loro stesse e la loro immagine, creando una sorta di aspirazione. In terzo luogo, distinguersi dalla folla in un modo molto più professionale. Questo è ciò che io chiamo un marker somatico: è una cosa così radicale che non la dimenticherete mai».

Il marker somatico può essere qualsiasi cosa. Un esempio? Un semplice biglietto da visita: ma con un angolo piegato e la parola “Brand” in rilievo. «Ho infranto una regola, non si piega di solito un biglietto da vista, e ciò diventa un piccolo segnalibro nel mio cervello, che non si dimentica. Questo è un esempio di un marker somatico molto piccolo, che può emergere in modo spettacolare».

Laddove la ricerca nella pubblicità e le tecniche di monitoraggio non erano riuscite a spiegare l’impatto sulle vendite delle campagne, il neuromarketing sembra avere successo.

È la forza del pensiero creativo. Un altro esempio? Orange, una società di telecomunicazioni negli Stati Uniti, ha deciso di offrire a tutti gli studenti di verniciare gratis le loro automobili. A una condizione: che la macchina doveva essere dipinta di arancione. All’improvviso sono comparse 5 mila vetture arancioni in giro per San Francisco, che hanno creato così un marcatore somatico.

I marchi si rivolgono ai sensi – l’udito, la vista, l’olfatto e il gusto e il tatto – in un modo molto più sistematico perché gli spot emotivi sono trattati in maniera diversa dal cervello da quelli che fanno appello alla logica. Il logo sarà sempre importante, ma il gioco è proprio sviluppare tutti gli altri punti di contatto, in modo da “sentire” il marchio piuttosto che “osservare” un logo. Senza dimenticare che oggi i consumatori possono distruggere un brand in pochi secondi su Facebook e Twitter o, al contrario, possono costruirlo.

Etica nel futuro del marketing e del neuromarketing

È chiaro che siamo agli inizi. Ci si può chiedere, a questo punto, se sia etico esaminare il cervello al fine di spingere sempre più le vendite di prodotti, manipolare i messaggi e utilizzare le tecniche per generare una reazione da parte dei consumatori. Dovremmo avere paura del neuromarketing?

«Non stiamo mettendo l’etica da parte – sostiene Lindstrom. La pubblicità ci sta bombardando: siamo esposti a 2 milioni di spot televisivi nel corso della nostra vita. Possiamo imparare un modo per rendere un annuncio più influente, e così ridurre il numero di annunci. Questo era davvero l’obiettivo. E la risposta è stata, sì, funziona davvero». Questi studi secondo l’esperto, non puntano in assoluto a vendere sempre più prodotti, ma a una comunicazione di migliore qualità e più efficace.

Siamo stimolati tutto il tempo, e il nostro cervello è dipendente. Come conseguenza di ciò, la nostra capacità di attenzione è molto bassa. La pubblicità deve fare appello a una generazione che in realtà non si concentra affatto.

Siamo così assuefatti ai telefoni cellulari, ai segnali e ai messaggi in TV che non possiamo concentrarci senza avere qualcosa che ci stimoli visivamente. Mentre aspettiamo qualcuno, controlliamo i messaggi continuamente sul cellulare, solo per fare qualcosa, anche se non ci sono, perché siamo assuefatti a cose che stimolano.

«Mi sono chiesto se sia etico, per esempio, esaminare gli stati cerebrali, e direi che non è né più né meno etico di qualsiasi altro tipo di studio di marketing. Ha probabilmente sia molti difetti che benefici – dice Goleman – Ma sono opportuni degli avvertimenti. Per esempio, per fare uno studio sul cervello, si mette una persona in una situazione artificiale e si vede come il suo cervello reagisce alla marca X o Y. Ma non può essere una replica reale di come agiranno effettivamente. E il consumatore deve sapere quello che sta succedendo: in ogni marchio ci deve essere trasparenza al 100%. Non si può più agire dietro uno specchio oscurato, sperando che nessuno noterà quello che sta succedendo in una stanza nascosta sul retro. La prossima generazione di marketer avrà nuove regole cui obbedire per sopravvivere, perché viviamo in un mondo di Wikileaks dove non ci sono più segreti. Come consumatori non c’è molto che possiamo fare. La buona notizia, però, è che se siamo consapevoli, subiamo meno le influenze».

I limiti del neuromarketing

C’è ancora molto da imparare dall’utilizzo di queste nuove tecnologie per il marketing. In ogni caso, non bisogna essere ingenui e pensare che uno studio del cervello vada necessariamente a dare una migliore informazione rispetto a qualsiasi altro tipo di studio di marketing.

«Bisogna essere molto attenti a come si interpretano i dati – mette in guardia Greenfield –. È vero che quando le persone stanno guardando alcuni marchi, parti del cervello si illuminano. Ma che cosa significa? Questo non vi dice come il funziona il cervello. Sappiamo, per esempio, che ci sono almeno 30 diverse regioni del cervello che si riferiscono alla vista. E sappiamo anche le varie pari del cervello lavorano po’ come gli strumenti in un’orchestra, offrendo un’esperienza olistica. Il tutto è più della somma delle sue parti. È così che dovremmo pensare al cervello. I marchi dovrebbero usare il neuromarketing qualitativamente, senza andare troppo lontano: le risposte emozionali e gli stimoli non sono facilmente misurabili».

*Articolo realizzato in collaborazione con WOBI – World Business Forum

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